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il regionalismo italiano al bivio
Il regionalismo italiano al bivio
Carlo Fusaro, Università di Pisa
percorso didattico |
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1. Parole introduttive e sintesi.
Il dibattito sulla riforma delle istituzioni è aperto da
oltre un quindicennio (almeno a livello parlamentare: a far data
da quando le due Camere istituirono i primi "comitati di
studio" nel 1982, i quali aprirono la strada alla prima Commissione
bicamerale, quella presieduta da Aldo Bozzi nel biennio 1983-1985),
ma per ora è approdato a poco di concreto, se si fanno
salve le innovazioni elettorali che certo hanno rilevanza istituzionale,
ma costituzionali non sono. In questo quadro, il tema di quella
che, per evitare nominalismi (stato federale, stato regionale,
eccetera: se ne parlerà brevemente), chiamerò "distribuzione
territoriale del potere politico" si presenta ad oggi come
il meno evoluto e maturo, quello intorno al quale si è
fatta più confusione e che appare più lontano da
esiti davvero convincenti. Lo dico anche alla luce del primo testo
elaborato dalla Commissione presieduta dal deputato Massimo D'Alema
(la terza "bicamerale", dopo la Bozzi, 1983-1985, e
la De Mita-Iotti, 1992-1994) e presentato alle Camere il 30 giugno
1997 (AC 3931, AS 2583), il quale conferma in pieno, per i suoi
contenuti e ancor più per il modo come è nato, quanto
ho appena affermato (anche se, il giudizio definitivo resta sospeso
fino a quando il progetto avrà percorso qualche tratto
in più del suo lungo iter parlamentare).
Le ragioni di questo ritardo
sono svariate. Indico solo quelle che a me paiono fondamentali:
(a) la classe dirigente italiana nel suo complesso è stata
educata sulla base di radicate convinzioni centralistiche e statalistiche;
(b) la riforma regionale degli anni dal Settanta in poi ha appena
scalfito l'impianto istituzionale complessivo che si era confermato
e consolidato nel secondo dopoguerra caratterizzato da stato accentratore
e forti municipalità; (c) il sistema politico italiano
fino ai primi anni Novanta è stato caratterizzato anch'esso
dalla sua sostanziale unitarietà con un forte controllo
degli apparati centrali sulle organizzazioni periferiche; (d)
l'esperienza regionale, pur tenendo conto che essa è stata
resa più difficile dalla ritardata attuazione e dalle tendenze
centralistiche inveterate di cui s'è detto, ha per lo più
deluso quanti contavano su di essa come motore del rinnovamento
dell'ordinamento italiano nel suo complesso; (e) il diverso grado
di sviluppo economico e in generale "civile" della società
italiana nelle varie aree del paese (Nord con Toscana, Umbria
e Marche da un lato, Centro-Sud e isole dall'altro) ha costantemente
riproposto e alimentato scetticismo in ordine all'opportunità
di attribuire competenze e risorse alle classi dirigenti regionali;
(f) l'invadenza della politica e l'interventismo pubblico guidati
da partiti costruiti tutti su varianti del modello del partito
di massa nella variante leninista hanno a lungo schiacciato le
autonomie di ogni tipo, e in particolare quelle più deboli
storicamente; (g) last but not least, il tema dei rapporti
centro-periferia (sotto i molteplici profili giuridico-formali,
finanziari, economici e sociali) è obiettivamente uno dei
più difficili ad affrontarsi e risolversi, come dimostrano
le esperienze di molti altri paesi, anche sotto lo stretto profilo
della tecnologia istituzionale. In quest'ultimo senso,
per intenderci, è molto più complesso del tema della
forma di governo.
A tutto ciò si deve
aggiungere l'irrompere della tematica della devoluzione dei poteri
a livello regionale a seguito dei successi elettorali conseguiti
a partire dai primi anni Novanta dalla Lega Nord: i contenuti
del programma di questo partito nel loro evolvere nel tempo, le
parole d'ordine elaborate, le tattiche applicate nei rapporti
con le altre forze politiche, l'evocazione, a partire dal 1996
(a seguito dell'esito delle elezioni che pur salvando in parte
la consistenza dei gruppi parlamentari della Lega ne aveva drasticamente
ridimensionato il peso politico-parlamentare, rispetto alla legislatura
precedente) di una vera e propria secessione della c.d. Padania
(regione dai confini indefiniti, storicamente e giuridicamente
inesistente) hanno ovviamente finito col condizionare ed influenzare
il dibattito rendendo nel tempo sempre più difficile coglierne
i termini effettivi. In altre parole anche per gli osservatori
più attenti risulta assai arduo cogliere le posizioni delle
singole forze politiche: il che rende praticamente impossibile
cercare di capire le alternative effettivamente in gioco e anticipare
possibili punti di sufficiente convergenza. Ne è stata
dimostrazione lampante, come anticipavo, il modo come si è
svolta ad oggi la discussione parlamentare: soluzioni profondamente
diverse su punti non marginali sono comparse e scomparse nello
spazio di pochi giorni, senza che fosse possibile cogliere un
minimo di evoluzione coerente. Quasi che ogni giorno si ricominciasse
da capo.
2. Qualche cenno di storia delle istituzioni.
Anche se oggi gli stati considerati
"federali" sono numerosi (e qualcuno avrebbe calcolato
che circa il 40% della popolazione mondiale vivrebbe in ordinamenti
del genere), va detto che lo stato moderno come noi lo intendiamo
è nato unitario (si pensi sia all'Inghilterra sia alla
Francia). In Francia e sul continente europeo è anche nato
con le caratteristiche dello stato c.d. assoluto (non così
in Inghilterra).
L'idea della sovranità
ripartita è relativamente recente e si deve senza ombra
di dubbio ai costituenti americani (che influenzarono fortemente,
prima di tutto, altri paesi del continente latino-americano dal
Messico all'Argentina al Brasile e, in Europa, la Confederazione
elvetica). L'idea della sovranità ripartita consiste nel
fatto che i poteri di governo di una comunità sono divisi
in base al principio secondo il quale coesistono (A) una autorità
indipendente, competente per l'intero paese riguardo ad alcune
materie, e (B) altre autorità che sono competenti ciascuna
nel suo territorio per le rimanenti materie. Queste autorità
sono fra loro in qualche modo coordinate e non subordinate l'una
all'altra: se quella competente per l'intero paese fosse sovraordinata
a quelle competenti per parti di esso, ci si troverebbe davanti
a uno stato sostanzialmente unitario (anche se magari fortemente
decentrato); se accadesse l'opposto e fossero le singole autorità
competenti per parti del territorio complessivo a poter subordinare
al proprio volere (per esempio in nome del principio di unanimità
nel compiere le scelte collettive), l'autorità competente
per l'intero territorio, allora ci si troverebbe davanti piuttosto
a una confederazione. Non inganni il caso elvetico: il
termine Confederazione, che è tuttora applicato come nome
ufficiale ha carattere storico e precede gli anni 1848 e 1874
quando l'attuale sistema di rapporti fra governo centrale e cantoni
fu elaborato, appunto tenendo conto del modello americano.
A garanzia di questa sovranità
ripartita i costituenti americani posero un sistema giudiziario
culminante in una Corte suprema (la quale non nasce per esercitare
la funzione di controllo di costituzionalità delle leggi
che essa si attribuisce solo a partire dal 1803, celebre caso
Marbury vs. Madison; ma appunto per garantire che il governo
federale non avrebbe travalicato le sue competenze); inoltre un
Parlamento (Congresso) che permettesse in parte un'uguale rappresentanza
dei singoli stati membri (il Senato com'è noto ha due membri
per Stato sicché il minuscolo Rhode Island ha tanti senatori
quanti la grande California). Queste scelte, infine, essi decisero
di consacrarle in un solenne patto scritto, la prima costituzione
scritta (secondo il modello dei covenant dei pellegrini
fondatori delle colonie).
Dietro questa geniale strategia
istituzionale c'era una precisa volontà politica: permettere
alle 13 colonie del tempo, stati fino ad allora autonomi e indipendenti,
di fronteggiare il nemico esterno e la competizione economica
internazionale, in nome di una more perfect union: per
dirla in breve, l'obiettivo era quello di assicurare nel rispetto
di un ampio quadro di competenze statali una maggiore unità
fra le 13 colonie. Le origini storiche del federalismo stanno
dunque nell'esigenza di permettere ad ordinamenti diversi e distinti
di mettersi insieme. Esperienze sudamericane a parte (da prendersi
con le molle in considerazione del contesto così profondamente
diverso) per molti decenni il modello americano non trovò
imitatori: a parte la Svizzera si possono citare l'Australia e
in parte l'Austria. Profondamente diverso il caso dell'Unione
sovietica che nasce formalmente federale e che mantiene fino all'ultimo
nelle sue diverse costituzioni, fino a quella del 1977, il diritto
dei singoli stati alla secessione: ma il ruolo della costituzione
in quell'ordinamento era diverso da quello delle costituzioni
degli stati di derivazione liberal-democratica (sia per la concezione
del diritto come semplice sovrastruttura dei rapporti di produzione
tipica del marxismo sia per il regime a partito unico che impediva
il pluralismo e dunque per definizione ogni forma garantita di
riparto del potere politico). E infatti nessuno ha mai neppure
immaginato che, vigente quel regime, fosse possibile per una delle
repubbliche far valere efficacemente il proprio diritto di secessione.
Del resto il XX secolo ha
conosciuto, nei suoi primi decenni, una epocale tendenza all'accentramento
del potere politico: la ragione principale di questa tendenza
va ricercata nelle conseguenze dell'allargamento della base democratica
dello stato liberale, cioè del suffragio universale. Il
superamento definitivo dello stato monoclasse in Europa e la necessità
di fronteggiare la Grande Depressione in America si traducono
in una fortissima domanda di governo: anche negli Stati Uniti
(anzi: prima di tutto negli Stati Uniti), la risposta è
l'intervento pubblico federale (cioè di Washington). Di
qui il famoso contrasto fra il presidente Roosevelt e la Corte
suprema (risoltosi a vantaggio del primo). In Europa, Regno Unito
a parte, le deboli democrazie emerse dalla prima guerra mondiale
si fanno tutte trascinare in esperienze autoritarie.
Una seconda ondata "federalista"
si registra dopo la seconda Guerra mondiale: essa risponde a motivazioni
ed esigenze assai diverse, fra le quali la volontà di instaurare
sistemi fondati su una marcata divisione dei poteri. Nel caso
della Germania si ebbe un vero e proprio diktat degli alleati
occidentali ben decisi ad utilizzare la ripartizione di potere
politico garantita da un assetto federale per ridurre i rischi
di una nuova concentrazione di potere dopo l'esperienza nazista.
Nel caso dell'India si trattava di permettere a un immenso stato
multietnico e multireligioso, un vero e proprio continente, di
governare sè stesso (cosa che è di fatto riuscita
possibile con qualche successo, considerate le difficoltà,
dopo una guerra civile sanguinosa e la perdita delle aree a maggioranza
musulmana). La Francia rimase invece saldamente unitaria fino
agli anni Ottanta, quando si dette dei "consigli regionali"
con importanti funzioni di programmazione territoriale ed economica.
La Spagna del dopofranchismo si dette un ordinamento fondato su
c.d. "comunità autonome" per tenere conto delle
aspirazioni autonomistiche e addirittura nazionali di catalani
e baschi (1978). Il Belgio ha recentissimamente costituito un
assetto che si autodefinisce federale e che si caratterizza per
la singolarità di essere legato solo in parte al territorio:
nel senso che il potere di decidere su determinate materie è
attribuito a rappresentanti espressione non di cittadinanza territoriale
ma di cittadinanza comunitaria (1993). L'Italia, della quale diciamo
a parte, si è dotata di un assetto in qualche modo intermedio
e realizzato a tappe con forte ritardo rispetto alla previsione
costituzionale (1970). Infine si può ricordare che nel
1996 il Sud Africa si è dato a sua volta una complessa
costituzione che cerca di tenere conto (un po' come il Belgio
ma con difficoltà e problemi decuplicati) del coacervo
di etnie insediate insieme sullo stesso territorio in modo da
rispettare a un tempo i diritti del cittadino come individuo e
del cittadino come membro appunto di una comunità tribale.
Si potrebbe poi fare un cenno all'Unione europea: cioè alla realizzazione, avanzata anche se certo non completa, degli ideali federalisti sviluppati fin dalla fine degli anni Trenta dalla Federal Union, fondata in Gran Bretagna dal fautore del welfare state William Beveridge e da una serie di studiosi e accademici illustri i quali pensavano così di poter salvare dall'imminente conflitto l'Europa. E' documentata, sia detto in parentesi, l'influenza di costoro su Altiero Spinelli che proprio a Ventotene ebbe modo di leggere i loro importanti contributi. Oggi l'Unione europea costituisce la conferma sotto il profilo politico-istituzionale dell'idea del federalismo come teoria politica volta a favorire il superamento dei conflitti fra ordinamenti territorialmente vicini ed accomunati da interessi comuni, attraverso meccanismi di riparto del potere politico. D'altra parte, e ciò ci permette di passare a un altro punto del nostro discorso, proprio il caso dell'UE dimostra quanto sia difficile classificare ed etichettare certe realtà politico-istituzionali: cos'è l'UE? E' una federazione? una confederazione? uno stato pre-federativo?
3. Difficoltà
classificatorie.
Dottrina illustre si è consumata
nel tentativo di individuare ciò che possa caratterizzare,
dal punto di vista giuridico e costituzionale, e sotto il profilo
appunto della distribuzione del potere politico sul territorio,
i diversi ordinamenti statuali. Che uno stato accentrato sia organizzato
in modo assai diverso da uno stato federale non vi è
dubbio. Ma se si osserva il panorama dei principali ordinamenti,
e se si fa eccezione per alcuni (non tutti) di quelli di dimensione
territoriale e demografica minore, si deve osservare che stati
accentrati secondo il modello francese giacobino che si impose
come uno degli esiti della rivoluzione francese, ve ne sono ben
pochi: a partire, come abbiamo visto, dalla Francia stessa che
pure non viene in genere considerata uno stato a carattere regionale.
Ciò che voglio dire
è che di fronte al classico modello di stato federale più
che stati unitari accentrati si pongono oggi stati tutti caratterizzati
da una forma o l'altra di decentramento politico. Ciò spiega
perché la dottrina più recente (BOGNETTI, VOLPI)
si trova concorde nell'affermare che i concetti di stato federale
e di stato regionale, ed anche quelli di confederazione
e di organizzazione sovranazionale sono astrazioni classificatorie
che "sfumano l'una nell'altra e che si riferiscono ad ordinamenti
concreti tra i quali intercorrono differenze ma non cesure rigidamente
separanti" (BOGNETTI): saremmo così di fronte a un
continuum fenomenologico che vede da una parte la concentrazione
e dall'altra la distribuzione territoriale del potere politico,
mentre i singoli ordinamenti concreti si collocano quasi tutti
in una qualche posizione intermedia. Perciò stato federale
e stato regionale non sono forme di Stato distinte
e inconciliabili ma due manifestazioni ovviamente diverse di processi
di decentramento politico che toccano gran parte degli Stati contemporanei
di derivazione liberaldemocratica. Basti del resto pensare ai
requisiti che uno dei massimi teorici del federalismo propone
per definire un sistema federale: a) avere una costituzione scritta
cui abbiano concorso anche le singole autorità non centrali;
b) non centralizzazione del sistema delle garanzie (revisione
costituzionale e seconda camera), c) democrazia territoriale intesa
come divisione dei poteri per area (ELAZAR).
Da ciò deriva che
l'opzione fra assetto federale e assetto regionale formulata in
astratto non ha alcun senso se non in linea di larga massima:
si tratta di vedere in concreto quali soluzioni specifiche vengono
adottate in ciascun singolo ordinamento, tenendo altresì
conto, ovviamente, del contesto complessivo in cui tali soluzioni
si collocano (contesto sociale, culturale, etnico, economico,
tradizione e storia politico-istituzionale, e così via
dicendo).
Al di là delle etichette,
gli elementi di cui è utile tenere conto al fine di scegliere
il più adeguato equilibrio fra poteri centrali e poteri
non centrali, rispetto alle esigenze sistemiche di fondo che si
intendono perseguire sono:
- riparto delle funzioni fondamentali (legislazione, giurisdizione, ammini- strazione) dello stato fra autorità centrale e autorità non centrali
- facoltà riconosciuta alle autorità non centrali di organizzarsi in maniera autonoma, sia pure nel rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento considerato nella sua interezza
- diversificazione o uniformità nella disciplina dei rapporti reciproci fra autorità centrale e singole autorità non centrali
- individuazione delle competenze rispettive per materia e tipo di materia e/o individuazione di materie a competenza concorrente (che porta al c.d. federalismo di esecuzione o anche cooperativo rispetto al federalismo classico anglosassone che è duale e competitivo); eventuale affermazione del c.d. principio di sussidiarietà (per cui l'autorità centrale interviene solo ed esclusivamente quando l'autorità non centrale non è in grado di provvedere)
- garanzia per ciascuna autorità di poter raccogliere autonomamente le risorse necessarie all'esercizio delle proprie funzioni (c.d. federalismo fiscale)
- attribuzione o non attribuzione all'autorità centrale del potere di dettare ai cittadini dell'intero ordinamento comandi diretti
- individuazione dell'autorità (centrale o non centrale) cui spettano i poteri non enumerati specificamente (i c.d. "poteri residui")
- modalità del concorso delle autorità non centrali alle scelte delle autorità centrali (in particolare: struttura del Parlamento)
- eventuali poteri sostitutivi delle autorità centrali nei confronti di quelle non centrali (c.d. poteri d'emergenza)
- modalità di tutela del riparto della distribuzione delle competenze definito (in particolare: estrazione dell'organo o degli organi a ciò deputati, nonché garanzia di una costituzione scritta)
- modalità di revisione della costituzione (in particolare: concorso delle autorità non centrali al procedimento)
- eventuale facoltà riconosciuta alle autorità non centrali di collaborare ed associarsi (fino a unirsi) con altre autorità non centrali, anche senza il consenso delle autorità centrali
- eventuale facoltà
riconosciuta alle autorità non centrali di recesso (in altri termini: secessione)
ovvero limitazioni all'esercizio di tale facoltà e modalità relative.
4. Il caso del regionalismo
italiano.
Un secolo e mezzo fa, l'unità d'Italia
era stata costruita sulla base del modello centralistico che la
monarchia sabauda aveva importato dalla Francia. E' pura accademia
discutere oggi se, allora, sarebbe stato possibile adottare un
modello diverso, come pure non pochi avevano a tempo proposto
(da Mazzini a Cavour a Minghetti, per non parlare di Cattaneo).
Ad esser franchi c'è da dubitarne. Resta il fatto che dopo
che il paese ebbe anche sperimentato un ventennio di centralismo
autoritario e statolatra, i costituenti non poterono far finta
di nulla, riproponendo lo stesso modello di organizzazione dello
stato comunità dell'Italia liberale. Del resto, i cittadini
elettori avevano inviato alla Costituente come partito di maggioranza
relativa con il 35.2% dei voti una forza politica (la Dc) che
traeva i suoi ascendenti da un partito regionalista come il Partito
popolare di don Luigi Sturzo, il quale aveva ben chiara nel suo
programma l'opzione autonomista, accanto a quella personalista.
Come avrebbe poi sancito l'art. 2 della costituzione del '48 i
diritti della persona ("inviolabili") erano tutelati
sia con riguardo al singolo sia con riguardo alle formazioni sociali
o corpi intermedi nei quali si colloca: e ciò doveva valere
innanzitutto per la famiglia, ma anche per la scuola, per le comunità
locali e regionali, e così via. Si trattava in generale
di "comunità naturali" essenziali per ostacolare
ogni eccessiva invadenza dello Stato nella società.
Con basi culturali profondamente
diverse, questa era anche la posizione di una parte dei costituenti
liberali e socialisti, ma soprattutto di azionisti e repubblicani:
entrambi consideravano l'accentramento uno dei peccati originali
dello Stato italiano (AMATO-BRUNO). Per gli azionisti, poi, fautori
del governo presidenziale, un forte tessuto autonomistico costituiva
una necessità.
Queste concezioni pluraliste
vennero a trovarsi in antitesi con quelle comuniste, ostili, invece,
all'autonomismo e al regionalismo per il timore che questi potessero
favorire i particolarismi e rendere il rinnovamento economico
e sociale che essi più di ogni altro obiettivo perseguivano,
più difficile. Divisi furono a lungo i socialisti.
Un primo confronto fra le
proposte dei diversi partiti si ebbe in seno alla Commissione
Forti (che si era vista affidare dal Ministro per la Costituente
il compito di condurre "studi attinenti alla riorganizzazione
dello Stato"). In quella sede le cautele furono molte: a
lieve maggioranza comunque ci si espresse a favore dell'istituzione
delle regioni, viste però come meri enti di decentramento
amministrativo e soggette a controlli statali (non si pensava
di attribuire ad esse potestà legislativa).
In seno alla Costituente
è noto che il compito di redigere il testo base fu affidato
a una Commissione per la Costituzione composta di 75 membri (c.d.
Commissione dei 75, appunto). Qui il dibattito sulle regioni
fu vivacissimo e il contrasto fra quanti (per esempio il democristiano
Piccioni) pensavano alla regione come "baluardo per la libertà
dei cittadini" e quanti (per esempio il comunista Grieco)
respingevano ogni suggestione federalista difendendo la scelta
unitaria del 1861, aspro. I fautori del regionalismo erano in
lieve prevalenza e riuscirono a prevalare anche sulle obiezioni
che avanzò lo stesso Palmiro Togliatti, leader indiscusso
dei costituenti comunisti. Minor fortuna i regionalisti ebbero
nell'ottenere la seconda camera in rappresentanza delle autonomie:
solo un terzo sarebbe stata (nel progetto) espressione dei consigli
regionali.
In Assemblea le regioni riuscirono
a passare grazie alla conversione del Pci che anche su questo
punto rinnovò l'alleanza con la Dc (anche perché,
essendo ormai stato escluso dal governo, nella primavera 1947,
cominciava a tenere in più alta considerazione i vantaggi
della distribuzione del potere politico). L'alleanza Dc-Pci fu
decisiva stanti le resistenze di molte forze politiche e singoli
costituenti. Ma prevalse in ogni caso quella che la dottrina considera
una "posizione intermedia" (AMATO-BRUNO): le regioni
non avrebbero avuto ambiti legislativi propri ed esclusivi,
ma solo concorrenti, cioè vincolati a quanto avrebbero
disposto le leggi statali. Queste, in teoria, avrebbero dovuto
contenere solo norme quadro: in realtà, come si è
visto poi negli anni dal 1970 in poi, il Parlamento ha finito
col battezzare quali principi fondamentali disposizioni di assoluto
dettaglio. Ulteriore conseguenza, la circostanza che, finalmente
istituite le regioni ordinarie, per alcuni anni ci si attardò
a sostenere che le regioni non avrebbero potuto legiferare in
assenza della normativa quadro statale: tesi poi superata,
ma che concorse a ulteriori ritardi nell'attuazione concreta dell'ordinamento
regionale.
La soluzione adottata alla
Costituente fu dunque caratterizzata per questi elementi, anche
tenuto conto dei parametri di cui al paragrafo precedente:
- istituzione di regioni con competenze differenziate: quelle a statuto speciale con materie di competenza esclusiva, quelle a statuto ordinario con materia di competenza ripartita e concorrente (con quella statale), già definite nell'art. 117 della Costituzione; le regioni a statuto speciale erano Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Valle d'Aosta e, grazie a una legge costituzionale del 1963, il Friuli-Venezia Giulia;
- individuazione, appunto nell'art.117 Cost., delle materie di competenza regionale, intendendosi i poteri residui tutti statali (sintomo evidente di abbandono di ogni ipotesi federalista);
- previsione di ulteriori limiti alla competenza legislativa, pur concorrente, delle regioni (interesse nazionale, delle altre regioni, leggi di grande riforma);
- nessuna autonomia fiscale;
- autonomia statutaria vincolata da disposizioni costituzionali comuni a tutte le regioni in ordine alla forma di governo;
- disciplina statale diretta degli enti territoriali all'interno delle regioni (comuni e province);
- struttura del Parlamento tale da consentire la sola rappresentanza dei partiti politici e nessuna rappresentanza degli enti territoriali sub-nazionali;
- limitato concorso delle regioni alla revisione costituzionale (sola possibilità di richiedere il referendum nel caso di approvazione della legge di revisione con maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei componenti);
- nessuna partecipazione regionale alla formazione dell'organo deputato a dirimere i conflitti di attribuzione fra regioni e fra stato e regioni (la Corte costituzionale composta di giudici di nomina parlamentare, presidenziale e giudiziaria);
- devoluzione agli organi statali della possibilità di istituire nuove regioni o fonderne di esistenti, con procedimento "rinforzato" perfino rispetto a quello costituzionale;
- sottoposizione della legislazione regionale a controllo governativo preventivo; il ricorso alla Corte da parte del governo impedisce l'entrata in vigore della legge regionale (il ricorso della regione contro una legge dello stato è invece successivo);
- sottoposizione a controllo
di legittimità degli atti amministrativi delle regioni.
A ciò si deve poi
aggiungere, in ultimo, il modo e i tempi in base a cui le regioni
sono state effettivamente istituite. Ciò infatti
è accaduto a ben 22 anni di distanza dall'entrata in vigore
della Costituzione, nel 1970 per ragioni storico-politiche che
qui non si ripetono (la Dc e i suoi alleati, in buona sostanza,
ritennero che potesse essere pericoloso istituire enti che avrebbero
in parte potuto perseguire un indirizzo politico diverso da quello
di maggioranza a Roma: come in effetti avvenne). Il ritardo era
grave in sé e per sé: ma soprattutto perché,
nel ventennio 1948-1968, tutta la pubblica amministrazione centrale
e locale si era strutturata in assenza delle regioni; gli stessi
enti territoriali minori avevano confermato o acquisito un ruolo
che certo sarebbe stato ben diverso se avessero dovuto coordinarsi
con l'ente regione sin dal 1948. Infine, le regioni videro la
luce in una fase particolare della storia politico istituzionale
del dopoguerra: come evidenzia la legge elettorale proporzionale
del 1968 (la legge 108/68, riformata di recente nel 1995), i partiti
politici furono molto attenti a fare in modo che il sistema politico
regionale diventasse mera emanazione subordinata di quello nazionale
(stessa legislazione elettorale, prevalenza delle circoscrizioni
provinciali, e così via). Le classi dirigenti politiche
regionali sono state così fino a poco tempo fa integralmente
composte dai "cadetti" in carriera del sistema partitico,
mero passaggio nel cursus honorum del politico professionista:
con le segreterie nazionali impegnate a controllare qualsiasi
scelta rilevante a livello regionale.
Quest'ultimo è stato
un elemento decisivo: le regioni fino ad anni molto recenti non
hanno mai saputo porsi come contro-poteri rispetto al governo
della Repubblica e hanno subito la logica interna di un sistema
politico centralizzato ed oligarchico; un vero decentramento di
potere politico reale non si è così mai verificato.
Anche per questo le speranze
che pure da molte parti si erano nutrite, alla fine degli anni
Sessanta, secondo le quali l'istituzione delle regioni avrebbe
potuto costituire il primo decisivo passo vero una più
complessiva razionalizzazione delle istituzioni italiane e soprattutto
della pubblica amministrazione in generale, andarono rapidamente
deluse: le burocrazie centrali mantennero a lungo un controllo
pressoché totale e ancora nei primi anni Novanta la vicenda
del ministero dell'Agricoltura (di cui nel 1993 era stata sancita
l'abrogazione in un referendum popolare) dimostrava quanto fosse
difficile per volontà riformatrici deboli e divise imporre
scelte di autentica innovazione e modernizzazione.
D'altra parte anche la Corte
costituzionale nel complesso di una giurisprudenza non sempre
coerente ha concorso con le sue decisioni a far prevalere, per
lo più, istanze centralistiche: le quali, per amor di obiettività,
possono apparire giustificate in un paese non solo caratterizzato
da differenze economiche rilevanti (esse anzi giustificherebbero
vieppiù regimi altrettanto differenziati e forti autonomie),
ma soprattutto da livelli di sviluppo sociale e civile tali da
far temere le conseguenze dell'autogoverno in certe aree del paese.
Qui si ritrova una costante di lungo periodo della storia italiana
dall'Unità in poi: il timore delle classi dirigenti più
moderne e responsabili del paese le quali temono che più
autonomia possa tradursi nel contrario della modernizzazione si
confondono con le istanze dei conservatori (esattamente come,
appunto nell'Ottocento, poco dopo l'unità d'Italia, quando
la paura della ristretta ma evoluta classe dirigente liberale
era che più autonomia locale avrebbe significato dare i
comuni in mano a "retrivi" e "clericali":
da qui scelte costantemente centralistiche). Se non che, ma questo
è un'opinione di chi scrive, con l'accentramento paternalistico
è chiaro che si deresponsabilizzano le classi dirigenti
locali e si rende impossibile la loro evoluzione e maturazione
anche in quelle aree nelle quali la coscienza civica è
relativamente più matura e le tradizioni civiche sono più
solide (sul punto rimando al famoso libro dell'americano PUTNAM).
5. La riscoperta del federalismo nella seconda metà degli anni Ottanta e il tema delle riforme istituzionali.
La riscoperta delle istanze di decentramento territoriale del
potere politico è molto recente.
Non che nel corso degli anni
non si fossero registrate fasi in cui da parte dei governi regionali
si era assunto un atteggiamento rivendicativo nei confronti dello
Stato: in particolare nel decennio Settanta fino all'adozione
del Dpr 616/77 con il quale finalmente lo Stato si decise a devolvere
alle Regioni le funzioni amministrative che ad esse spettavano
in parallelo alle funzioni legislative. Successivamente si è
però fatto strada una sorta di regionalismo cooperativo
e concertato di cui massima espressione può considerarsi
la "Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le
Regioni e le Province autonome" (Trento e Bolzano), istituita
in via informale negli anni Ottanta e poi disciplinata dalla legge
400/88 ("disciplina dell'attività di governo e ordinamento
della Presidenza del consiglio dei ministri": v. art. 12).
Si noti che quest'ultimo organo di coordinamento fra Stato e regioni,
volto a superare il vuoto di rappresentanza centrale regionale
lasciato dal costituente, è stato recentemente riformato
dalla legge 59/97 la quale ha istituito un ulteriore organo di
coordinamento costituito dall'integrazione della Conferenza Stato-Regioni
con i comuni e le province (autonomie locali): quasi l'emblema
d'uno degli ostacoli più forti che, nella realtà,
l'affermazione del regionalismo in Italia ha sempre dovuto e deve
tuttora scontare: e cioè il forte ruolo tradizionale dei
comuni (consolidato in epoca repubblicana, come si è visto,
dal ritardo nell'attuazione delle regioni ordinarie).
Che la classe politica nazionale
non percepisse in alcun modo l'esigenza di una redistribuzione
territoriale di potere politico a vantaggio delle regioni (quale
invece una società evolutasi avrebbe richiesto con sempre
maggiore energia), è testimoniato dalle vicende della prima
Commissione bicamerale per le riforme istituzionale, quella istituita
nel 1983. Guidata dal deputato liberale Aldo Bozzi (membro a suo
tempo della Commissione dei 75 alla Costituente), la Commissione
concluse i suoi lavori nel gennaio 1985: ebbene, come si legge
nella relazione finale, la Commissione semplicemente non ritenne
di dover affrontare specificamente i problemi del sistema delle
autonomie, "anche e soprattutto perché non vi sono
state proposte in questo senso da parte delle forze politiche
rappresentate in Commissione" (testuale). Qualche proposta
non mancava: pedissequamente mutuata da quelle segnalate dalla
Conferenza dei presidenti delle regioni, "pervenute"
(si legge sempre nella relazione) "soltanto il 24 gennaio
[1985] cioè immediatamente a ridosso della conclusione
dei lavori della Commissione". Sicché la relazione
finale si limitava a riportarle avvertendo che non erano neppure
state discusse. Quanto, infine alla c.d. "governabilità"
di regioni ed enti locali se n'era parlato: ma le proposte di
elezione diretta in quella sede avanzate erano risultate ancora
largamente minoritarie... Il massimo cui ci si era spinti era:
(a) possibilità di inserire nelle giunte regionali cittadini
non consiglieri regionali; (b) un aumento dei consiglieri regionali
(cos'altro poteva chiedere quel sistema partitico? NdA); (c) un
termine per ridurre i tempi di formazione delle giunte, pena lo
scioglimento del consiglio; (d) un più preciso riconoscimento
dell'autonomia organizzativa delle regioni. Insomma: nulla o quasi
nulla. Ma in Parlamento erano già entrati, fra molta curiosità
e nessuna preoccupazione, un deputato della Liga Veneta e un senatore
della Lega Lombarda.
Si rivelerà una bomba
a scoppio (relativamente) ritardato. Alle elezioni del 1987 i
leghisti sono ancora due: uno al Senato (in rappresentanza di
137.000 elettori), uno alla Camera (per 186.000 voti). Ma il 5
aprile 1992 quando Mario Chiesa a Milano è stato già
arrestato, l'inchiesta che sarebbe stata chiamata "mani pulite"
era avviata (ma ancora non nota al pubblico: lo diventerà
solo dopo quelle elezioni), la strategia referendaria è
ormai avviata (si è già tenuto il referendum sulla
preferenza unica del giugno 1991 e sono state presentate le firme
per i successivi referendum elettorali) i voti della Lega al Senato
sono diventati 2.700.000 e alla Camera 3.400.000: i senatori sono
25 e i deputati 55. L'istanza genericamente definita federalista,
che abbiamo qui tradotto con l'espressione neutra, ma esatta,
di redistribuzione territoriale del potere politico, è
posta e non uscirà più dall'agenda politica italiana.
Come per la materia elettorale le forze politiche tradizionale
e le istituzioni stesse adottano una strategia che alterna alti
moniti e occasionali demonizzazioni a solenni impegni a procedere
sulla strada di una devoluzione di poteri alle regioni: inevitabilmente,
però, la questione viene inquadrata nel più ampio
processo di riforma costituzionale, che tocca come è noto
la forma di governo, la struttura del parlamento, le stesse garanzie
costituzionali. Non se ne fa perciò di nulla e la questione
è a tutt'oggi aperta. Dal punto di vista politico, le vicende
che portano prima alla XII e poi alla XIII fanno sì che
la Lega Nord ("salvata" dal mancato scioglimento dopo
la caduta del governo Berlusconi e perciò ancora forte
dal punto di vista dei seggi parlamentari con 27 senatori, 59
deputati), sia fortemente indebolita politicamente perché
non più indispensabile ai fini della maggioranza di governo:
sicché il suo leader inaugura a partire dall'estate 1996
la strategia "secessionista". Non chiede più
un'autonomia delle regioni di tipo federalista, ma chiede, e anzi,
minaccia la costituzione delle regioni del Nord Italia (c.d. "Padania")
in ordinamento autonomo. Questa politica viene altresì
perseguita con un profluvio di sia pur modeste azioni dimostrative,
fatalmente amplificate dai mezzi di comunicazione di massa (manifestazione
sul Po del settembre 1996; insulti alla bandiera; costituzione
di una sorta di c.d. "parlamento del Nord" nella città
di Mantova; formazione di un c.d. "governo della Padania";
istituzione di squadre sportive con le insegne "padane";
occupazione del campanile di San Marco: quest'ultima da parte
di c.d. estremisti veneti non appartenenti alla Lega; indizioni
di c.d. elezioni "padane" per l'autunno 1997 e quant'altro).
A queste iniziative si risponde con un mix di saggia prudenza,
con intemerate istituzionali, con il tentato ricorso al logoro
armamentario del titolo I del libro II del codice Rocco ("dei
delitti contro la personalità dello Stato"): presunti
attentati contro l'integrità, l'indipendenza e l'unità
dello Stato, vilipendio della Repubblica, vilipendio alla nazione
italiana, vilipendio alla bandiera o ad altro emblema dello Stato.
Ma naturalmente si cerca affannosamente di rispondere anche con
strategie politiche e istituzionali che tengano conto delle aspettative
di pezzi di società sempre più dinamici e prosperi,
perciò più autonomi e più esigenti, meno
dipendenti da trasferimenti di risorse pubbliche e meno disposti
a conferirne. Con ciò siamo all'ultima e più recente
fase.
6. Le vicende più recenti fino alla proposta della terza Bicamerale.
Il dibattito su
regionalismo/federalismo coincide dunque con la fase di "transizione"
politico istituzionale che si apre con gli anni Novanta e segna
la fine del tradizionale sistema partitico incentrato sulla Dc:
la sua agonia caratterizza tutta la Undicesima legislatura (1992-1994).
Ma la XI legislatura vede
anche il tentativo di quel sistema politico di giocare in extremis
la carta delle riforme istituzionali, tentativo che si rivelerà
tardivo e non impedirà, né il referendum sulla legge
elettorale del Senato del 1993 né i numerosi referendum
promossi (per la prima volta) dalle regioni in chiave antistatalista
né, infine, la scomparsa di tutti i partiti di governo
dal 1948 al 1994 (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli: scomparsi o mutati
in qualcosa di totalmente diverso o ridotti a mere sigle senza
consistenza parlamentare).
Comunque, la seconda Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, istituita prima con risoluzioni di ciascuna delle due Camere poi con la legge costituzionale n. 1/1993, e presieduta fino al febbraio 1993 da Ciriaco De Mita (Dc) e sucessivamente dall'ex presidente della Camera Nilde Iotti (Pds), fa in tempo a licenziare un testo di revisione del titolo V della Costituzione (quello appunto intitolato "Le Regioni, le Province, i Comuni") con importanti elementi innovativi che costituiranno un riferimento per le elaborazioni successive:
- si ipotizza l'inversione del meccanismo attualmente previsto dall'art. 117 enumerando in Costituzione le competenze statali (con il che i poteri residui sarebbero spettati alle Regioni);
- le Regioni avrebbero avuto competenze esclusive e competenze concorrenti; le prime avrebbero potuto essere limitate solo da norme statali volte ad uniformare la tutela dei soli diritti fondamentali dei cittadini; le seconde avrebbero potuto essere vincolate solo da leggi statali contenenti principi fondamentali, ma rivolte alle Regioni come enti e non direttamente alla generalità dei cittadini (quasi alla stregua delle direttive comunitarie);
- venivano notevolmente rafforzate le competenze amministrative regionali;
- venivano permessi accordi fra regioni per le materie di competenza esclusiva;
- veniva attribuita alle
Regioni la facoltà di decidere la propria forma di governo
e il proprio sistema elettorale.
L'aspetto del tutto insoddisfacente
del progetto stava nella sostanziale assenza delle Regioni riguardo
alla composizione degli organi centrali dello Stato: mancava qualsiasi
riforma del bicameralismo. Né veniva toccata la composizione
della Corte costituzionale (alla quale le Regioni non concorrono)
sulla quale pure sarebbe ricaduto intero l'onere di tutelare la
posizione costituzionale delle Regioni (v. BARBERA E CALIFANO).
La XII legislatura, destinata
a sua volta a durare solo due anni (1994-1996) e caratterizzata
dai due governi Berlusconi e Dini, conobbe, per quel che riguarda
il tema che qui ci interessa, due principali vicende: quella della
fallita revisione dell'art. 122 Cost. relativo agli organi regionali
e alla formazione delle Giunte (ci si sarebbe limitati a riformare
la legislazione elettorale con la legge 43/95 che avrebbe previsto
l'istituzione di un forte premio di maggioranza accanta al mantenimento
di una larga base proporzionale più una sorta di "designazione"
popolare del Presidente della Regione); quella del Comitato di
studio sulle riforme istituito dal governo Berlusconi. Esso rassegnò
la sua relazione finale nel dicembre 1994, suggerendo un complesso
di riforme incisive ancorché parzialmente contraddittorie:
non c'è dubbio che ci si muoveva in direzione di un notevole
rafforzamento delle regioni (grazie al criterio di riparto delle
competenze legislative, alle attività sovranazionali permesse
alle Regioni, alla delineazione di una seconda Camera secondo
un modello simile al tedesco Bundesrat), ma al tempo stesso
si puntava al contestuale rafforzamento degli altri enti locali
(Comuni e Province). Si riproponeva qui uno dei dilemmi dal quale
il riformismo possibile e concreto non sembra in grado di uscire:
gli enti locali di fatto ostacolano il rafforzamento delle Regioni,
preferiscono interloquire direttamente con le amministrazioni
centrali dello Stato piuttosto che con le Regioni di appartenenza,
chiedono a loro volta una diretta tutela costituzionale, rivendicano
una presenza autonoma in una seconda Camera effettivamente riformata
in direzione della rappresentanza territoriale.
Infine, prima di esaminare
brevemente il primo progetto presentato dalla terza Commissione
parlamentare per le riforme (quella presieduta da Massimo D'Alema,
istituita con la legge cost. n. 1/1997), si deve aggiungere che
il governo della coalizione dell'Ulivo, presieduto da Romano Prodi,
ha avviato un processo di trasformazione dell'ordinamento a
costituzione vigente: si segnala in particolare la legge n.
59/1997 che delega il Governo a conferire funzioni e compiti alle
Regioni e agli enti locali. Si tratta di un processo di decentramento
di funzioni amministrative che cerca di ricalcare la distribuzione
delle funzioni fra centro e periferia tipici degli Stati federali,
non senza forzare l'interpretazione della Costituzione (v. BARBERA
E CALIFANO): solo una verifica a posteriori permetterà
di valutare l'impatto di questa legislazione sulla realtà
dei rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali (si tratta, come
si è detto, di una delega).
Il progetto della Bicamerale
del 30 giugno 1997 (oggetto di incisive modifiche da parte della
Commissione stessa dopo la presentazione degli emendamenti, nel
momento in cui queste note vengono stese, settembre 1997) sembra
ispirarsi, nelle intenzioni, al modello spagnolo (stato considerato
dagli studiosi "regionale", sia pure in forme più
accentuate che non l'Italia). C'è una ratio in tutto
questo, perché il costituente italiano del '48 ebbe ben
presente la costituzione spagnola del 1931, mentre il costituente
spagnolo del 1978 ebbe presente la costituzione italiana. Secondo
i critici, peraltro, il modello emerso di spagnolo ha solo il
riferimento e il fatto che si immagina (come per le Comunità
autunome in Spagna) una graduale assunzione delle nuove funzioni
da parte delle Regioni. Per il resto i punti di innovazione positiva
rispetto alla situazione attuale sono l'eliminazione dei controlli
statali preventivi sugli atti regionali (come l'eliminazione dei
controlli regionali sugli atti degli enti locali) e la facoltà
attribuita alle Regioni di provvedere direttamente all'attuazione
ed esecuzione delle direttive dell'Unione Europea.
Per il resto, invece, si devono fare queste osservazioni:
- c'è l'inversione del criterio di riparto delle competenze fra stato e regioni più volte evocato: ma l'elenco delle competenze statali è tanto vasto da andare al di là di quanto la normativa attuale già di fatto prevede; come se non bastasse l'art. 59 del testo della Bicamerale prevede che spetti allo stato "la potestà legislativa per la tutela di preminenti e imprescindibili interessi nazionali": formula che permetterebbe di legiferare su qualsivoglia materia;
- continua a mancare una
vera seconda camera in rappresentanza degli interessi territoriali
e in particolare delle regioni.
Quest'ultima ad avviso di
chi scrive è la vera "palla al piede" che rende
il processo riformatore difficile con ricadute negative nelle
direzioni più diverse: la volontà di salvaguardare
quanto più è possibile una seconda camera simile
all'attuale o comunque dotata di attribuzioni rilevanti, impedisce
di risolvere adeguatamente il problema della forza del governo
in Parlamento; al tempo stesso essa impedisce di dare alle regioni
una vera rappresentanza al centro. Il punto è che si nega
l'unica ragione giustificatrice, modernamente, del bicameralismo:
di null'altro è espressione il tentativo di "inventare"
una seconda camera cosiddetta "delle garanzie" che non
ha simili al mondo. Ciò spiega anche la singolare tesi
secondo la quale sarebbe "più federale" una impostazione
"dualistico-competitiva" rispetto a una "cooperativa":
di altro non si tratta che del marchingegno teorico per suffragare
il rifiuto della Camera delle regioni.
Altre soluzioni, poi, sono
il riflesso del clima di diffidenza che sussiste fra regioni e
comuni: le prime non hanno saputo associare i comuni al governo
della regione (come avrebbe potuto essere possibile, per esempio,
prevedendo seconde camere regionali in rappresentanza dei comuni);
i secondi continuano a cercare garanzie centrali contro le regioni.
Tant'è che il progetto continua ad escludere l'attribuzione
alle regioni ordinarie della competenza in tema di ordinamento
degli enti locali. Non a caso una studiosa ha definito il rapporto
stato-tegioni delineato dalla Bicamerale "neoregionalismo
di impronta municipalista" (GROPPI).
In sintesi, strette fra i
comuni, ancora rafforzati dall'elezione diretta dei sindaci, e
da un potere centrale destinato in futuro (a quanto pare) ad essere
caratterizzato dall'elezione diretta del capo dello stato, le
regioni rischiano di rimanere vittime di un federalismo meramente
nominalistico.
In conclusione, dunque, il
bivio di fronte al quale il regionalismo italiano si trova a circa
50 anni dalla Costituzione e a quasi 30 dall'effettiva istituzione
delle regioni non è fra trasformazione in senso federale
e mantenimento dell'attuale assetto regionalistico, ma fra un
regionalismo finalmente compiuto ed efficace caratterizzato da
effettiva redistribuzione di potere politico e un finto federalismo
tutto di facciata inventato nell'illusione di contrastare così
le rivendicazioni di consistenti fette dell'elettorato del Nord
Italia. Illusione pericolosa, destinata a trasformarsi in boomerang
non appena ci si accorgerà che dietro di esso c'è
la sostanziale indisponibilità a concepire un vero ridimensionamento
dell'intervento pubblico, un più limitato ruolo della politica
e dei partiti nella società, l'allargamento effettivo degli
spazi di libertà dei cittadini rispetto ad ogni potere.